“Se non la eviti la conosci: cosa è l’ansia?” – Seconda parte.

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Ricevo ad Albenga e Albisola (Savona)

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“Se non la eviti la conosci: cosa è l’ansia?” – Seconda parte.

Al termine della prima parte dell’articolo ho sottolineato come gran parte dei problemi legati all’ansia non dipendano dall’ansia in sé, che ha la naturale funzione di “sistema di allarme” alleato del benessere individuale, ma da una serie di intoppi nella costruzione di quello che dovrebbe essere un soddisfacente rapporto di collaborazione tra sé e le proprie emozioni, ansia compresa.

Un alleato con cui non è facile andare d’accordo.

Abbiamo detto che relazionarsi in maniera sufficientemente armonica con la propria ansia è una capacità che va appresa e questo, come tutti i processi di apprendimento, comporta dei rischi: che si creino delle associazioni, dei legami innaturali, forzati, che non funzionano.

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E’ simile a ciò che può accadere, ad esempio, quando si impara a suonare un qualche strumento musicale senza la guida di qualcuno che sia un minimo esperto. Il rischio è che si apprendano dei “vizi”, come un certo modo sbagliato di tenere lo strumento, di schiacciare un tasto o di pizzicare una corda, che a lungo andare possono limitare le mie capacità esecutive ma che risultano poi difficili da togliere, perché ormai abituali.

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Riguardo a ciò che può accadere a riguardo con l’ansia, ricorriamo come d’abitudine ad un’immagine.


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Mi sto preparando per una passeggiata a cavallo o per un giro in moto. L’ansia è “al servizio” del mio benessere, mi prepara affinché io possa trarre il massimo da ciò che sto per fare ed è pronta a legarsi piacevolmente all’immagine di me a cavallo o in moto, alla sensazione della brezza sul viso, alla gioia per quello che sto facendo, alla consapevolezza delle capacità che posseggo e che mi permettono di fare una simile esperienza. Ma un giorno cado, mi faccio male, mi spavento e l’ansia può ritrovarsi innaturalmente legata all’immagine di me che cado, al dolore provato, alla paura che possa accadere ancora, alla convinzione di aver sbagliato qualcosa, alla consapevolezza di non essere abbastanza bravo per poter evitare che accada di nuovo.

I miei limiti possono portarmi a dare ad un unico episodio negativo, a fronte di molti altri che non lo sono stati, un peso eccessivo, tanto da favorire l’”apprendimento di un vizio”, l’instaurarsi, in maniera generalmente non consapevole e non controllabile, di associazioni che mi limitano, mi bloccano, mi portano alla fuga.


Quando l’ansia “diventa” un problema?

I problemi nascono quindi ogni volta che “apprendiamo un vizio”, cioè ogni volta che l’ansia si lega, si associa a qualcosa con cui in realtà non dovrebbe essere più di tanto legata e, soprattutto, quando di questo legame e della sua attivazione chi lo ha “imparato” non ne è pienamente consapevole o comunque non riesce a controllarlo. Fermiamoci su alcuni esempi.

⇒     L’ansia può associarsi a quello che, durante una certa esperienza, hanno “raccolto” i nostri sensi: immagini, suoni, odori, temperatura e così via. Un esempio banale ma rappresentativo: “non so perché mi è salita l’ansia dopo che ho sentito quel rumore” o, ancora meglio, “non so perché mi è salita l’ansia “, nel caso in cui ci sia stato il rumore ma chi parla non se ne è accorto consapevolmente, non se lo ricorda, oppure non pensa abbia a che fare con l’ansia che ha provato. Possibile risposta:  “perché il rumore, di cui oggi magari non ti sei neanche accorto ma “il tuo cervello” sì, è simile a quello che hai sentito a 6 anni quando sono entrati i ladri in casa…”.

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Ovviamente il rumore sentito oggi non ha nulla a che fare con l’esperienza vissuta a 6 anni, non riguarda probabilmente una situazione di pericolo, non giustifica l’attivazione dei miei “sistemi di allarme” ma questi si sono attivati ugualmente. Allora: il sistema di allarme/ansia che si è attivato è il “problema” oppure questo “mi sta informando” di essere stato attivato dal fatto che c’è un certo “rumore” immagazzinato nella mia memoria che, legato alla “falsa”, se riferita ad oggi, convinzione di essere in pericolo, è in grado di condizionare/controllare i miei pensieri, le mie emozioni, il mio comportamento quando, più o meno consapevolmente, lo sento? Mettere a tacere l’ansia, zittire l’allarme che sta suonando, sicuramente, non lo neghiamo, mi farebbe stare meglio ma mi metterebbe al sicuro dalla possibilità che si ripetano in futuro esperienze in cui reagisco ad un pericolo che in realtà non c’è?

Possiamo estendere le stesse riflessioni ad altri possibili “vizi” appresi.

⇒     L’ansia può associarsi agli aspetti emotivi che hanno caratterizzato un’esperienza, come l’aver provato paura, vergogna, rabbia e così via, e riattivarsi ogni volta che sperimento quelle stesse emozioni, anche se in contesti e situazioni differenti dall’esperienza originaria.

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⇒     L’ansia può associarsi alla “messa in crisi”, da parte dell’esperienza vissuta, delle modalità con cui “ho imparato” fino a quel momento a rapportarmi alle mie emozioni: “so che devo essere forte ma ho reagito da debole alla situazione“, “ho imparato che l’aggressività è sempre da condannare ma nella circostanza ho agito con rabbia” e così via.

⇒     L’ansia può associarsi alle informazioni che ho raccolto dal mio corpo durante l’esperienza vissuta, riguardo alla respirazione, al battito cardiaco, alle tensioni, al dolore e così via e, come per le emozioni, riattivarsi o aumentare di intensità ogni volta che sperimento quelle stesse sensazioni, anche se in contesti e situazioni differenti dall’esperienza originaria.

⇒    L’ansia può associarsi alle valutazioni negative su me stesso  che ho inconsapevolmente espresso durante e dopo l’esperienza vissuta, come ad esempio: “non sono in grado di mettermi a sicuro”, “non ho il controllo”, “mi accadono cose brutte perché me lo merito”, “ho sbagliato qualcosa”, “non valgo niente” e così via.

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All’interno di un elenco che potrebbe indubbiamente essere più corposo e preciso l’aspetto importante è rilevare l’esistenza di una serie di elementi posti su diversi piani, in sintesi corporeo, emotivo e cognitivo, che si legano tra di loro e che in questo modo vengono “immagazzinati” in memoria come rappresentazione soggettiva, non necessariamente consapevole, di ciò che la persona ha vissuto all’interno di una determinata esperienza negativa o di una serie di esperienze. Da quel momento in poi il richiamo di ognuno di questi elementi può, “a catena”, rendere attuali tutti gli altri, compresa l’ansia a questi associata.


Tornando alla situazione vista in precedenza: Piero ha 6 anni, è notte e sta dormendo nel suo letto. All’improvviso viene svegliato da un rumore, come di un vetro che si rompe, ed automaticamente si avvia il suo sistema di allarme che attiva Piero per permettergli di reagire in maniera efficace ad una situazione ancora non chiara: nel concreto Piero sperimenta ansia. Normalmente, rassicurato dai genitori che il rumore è stato causato dal gatto che ha fatto cadere una tazza, l’allarme si disattiverebbe in tempi brevi, Piero tornerebbe a dormire serenamente e l’accaduto perderebbe di importanza, venendo presto dimenticato. Ma questa volta sente papà dire che i ladri sono entrati in casa, vede la mamma molto agitata, il suo cuore batte sempre più forte, il respiro è affannoso, si sente in pericolo e pensa di non potersi mettere al sicuro, la paura è sempre più forte e lui si sente bloccato nel letto, incapace di muoversi. Fortunatamente i ladri sono andati via, forse spaventati dalla pronta reazione di papà, ma questa volta l’allarme faticherà a disattivarsi velocemente, sarà difficile tornare a dormire serenamente e, soprattutto, la “catena” di elementi sperimentata potrebbe, anche senza la consapevolezza di Piero, rimanere “agganciata” ed attiva da qualche parte in memoria. Trent’anni dopo Piero sta camminando per strada tranquillo e sente un rumore, come di un vetro che si rompe, all’improvviso il suo cuore batte forte, il respiro è affannoso, l’ansia cresce, si sente inspiegabilmente in pericolo, non sa come mettersi al sicuro e si blocca, terrorizzato, all’angolo della strada …


Come intervenire?

E’ chiaro quindi come la priorità di ogni intervento rivolto ad eliminare il processo dannoso in atto, generalmente più articolato di quello volutamente semplificato nell’esempio di Piero, o ad attenuarne gli effetti limitanti il benessere individuale sia quella di “spezzare” la catena in uno qualsiasi dei suoi punti. In linea generale possiamo definire relativamente poco importante quale sia in particolare l’anello da spezzare, aspetto che acquista invece rilevanza se consideriamo le particolarità dei soggetti coinvolti, paziente e terapeuta, la natura del problema, la struttura di personalità di chi lo sta sperimentando, i suoi obiettivi, le sue motivazioni e, non da ultimi, il contesto in cui avviene l’intervento e i tempi a disposizione.

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Può essere allora un intervento che, aiutando a gestire l’attacco d’ansia attraverso, ad esempio, l’apprendimento di determinate tecniche di respirazione, può permettere al contempo alla persona di vivere l’esperienza del “potercela fare a…” o dell’”essere in grado di…”, spezzando così i legami con la considerazione di “non avere il controllo” vissuta, più o meno consapevolmente, da troppo tempo o con troppa intensità.

Può essere un intervento rivolto a modificare alcune delle modalità con cui l’esperienza è immagazzinata in memoria, e che richiamano “a catena” sensazioni, emozioni, valutazioni negative e sostituirle con altre che richiamino vissuti positivi, gestibili. Ad esempio modificare le modalità con cui il soggetto visualizza mentalmente scene riguardanti le esperienze disturbanti: inserire più luce, più colori, variare le dimensioni degli elementi presenti, spostare sullo sfondo ciò che è in primo piano e così via.

Può essere un intervento che, attraverso un lavoro sul corpo e sull’espressione delle emozioni, proponendo esercizi di respirazione, motori e sonori o esercitando idonee manipolazioni,  è rivolto ad ammorbidire quelle tensioni fisiche che non permetterebbero all’ansia di scaricarsi fisiologicamente.

Può essere un intervento che invece “attacca” direttamente le convinzioni limitanti che la persona ha di sé, proponendosi di sostituirle o integrarle con altre più incoraggianti. Intervento che può prevedere un graduale consolidamento comportamentale delle convinzioni alternative, ad esempio accompagnando la persona nella progressiva esposizione ad un’esperienza vissuta come pericolosa e stimolando sempre maggiori consapevolezza e convinzione intorno alle valutazioni di non essere in pericolo e di essere in grado di controllare la situazione.

Può essere un intervento che, stimolando l’emergere delle componenti emotive della propria esperienza, anche nel qui e ora della relazione con il terapeuta, alimenta le capacità individuali di consapevolezza e gestione delle stesse, ansia ed elementi a questa associati compresi.

Conclusioni

E’ chiaramente un elenco sintetico, incompleto e soltanto rappresentativo dei numerosi “punti della catena” su cui è possibile intervenire e delle relative svariate teorie e tecniche terapeutiche. Manca ad esempio il riferimento ai trattamenti farmacologici che intervengono direttamente sulla biochimica e sulla neurofisiologia dell’ansia. Su tutto questo, oltre che su tecniche ed esercizi di gestione dell’ansia che possono risultare efficaci, esiste in rete un quantità rilevante di informazioni facilmente reperibile. Invito comunque chiunque desiderasse maggiori approfondimenti in merito a contattarmi senza alcun impegno e sarò lieto di rispondere a domande o curiosità.

Personalmente ritengo sia un approccio interessante a parte delle problematiche legate all’ansia l’EMDR, tecnica che applico nella mia attività e che presento in un altro articolo all’interno del sito, perché in grado di intervenire contemporaneamente su vari anelli della “nostra” catena, riequilibrandola efficacemente, in tempi spesso anche molto brevi.

L’elenco presentato, nella sua sinteticità, vuole comunque esprimere una chiara critica nei confronti di chi, reclamando una sorta di “esclusività” nell’efficacia del proprio approccio alla terapia dei disturbi d’ansia, e non solo, non fornisce né culturalmente né socialmente, a parere mio, un servizio onesto. Personalmente diffido di una simile “sicurezza”, in alcuni casi più simile ad un’operazione di marketing personale o rivolta ad una qualche “scuola”, e apprezzo molto di più chi cerca di integrare nella propria pratica professionale differenti approcci o si mostra disponibile nel presentare alle persone possibili alternative al proprio intervento, praticate da colleghi o altri professionisti specializzati in tal senso,  quando ne rileva la possibile maggiore efficacia nel caso specifico.

Questo nella consapevolezza che esistono svariate combinazioni di variabili personali e motivazionali che incidono sul fatto che un particolare approccio, una particolare tecnica, una particolare coppia paziente/terapeuta possano produrre benefici per qualcuno più che per qualcun altro. Senza trascurare inoltre il fatto che per determinate strutture di personalità e per i relativi elementi di vulnerabilità possa risultare particolarmente delicato o controproducente il sollecitare direttamente un certo punto della catena descritta, ma che si possa comunque intervenire indirettamente su questo attraverso il lavoro su un altro punto, comunque collegato al primo, attraverso un approccio che risulti più tollerabile per quel particolare individuo.